La legione inglese nella spedizione del 1860

La legione inglese nella spedizione del 1860

La più importante battaglia tra l’armata delle Due Sicilie e l’esercito meridionale si svolse nei primissimi giorni di ottobre del 1860 sulle rive del Volturno.

I garibaldini, fermata l’offensiva dei borbonici, ricevettero nei giorni seguenti il rinforzo di 650 volontari inglesi, reclutati la maggior parte nei bassi fondi sociali londinesi.

La legione straniera giunse a Napoli il 15 ottobre sulla nave Emperor; i soldati, ben vestiti, dotati di armi efficienti con le mostrine degli ufficiali ricamati in oro, erano agli ordini del colonnello John Whitehead Peard, appellato dai giornali scandalistici “il Garibaldi inglese”.

Inoltre, un inviato speciale del Times di Londra seguiva la soldatesca per raccontare dettagliatamente gli avvenimenti che la vide protagonista.

Il primo banco di prova dei britannici fu la spedizione garibaldina organizzata il 24 ottobre 1860 per ricongiungersi con i piemontesi e cooperare in vista di una decisiva battaglia contro i napoletani.

Garibaldi decise di portare con sé solamente 5000 uomini circa, compresi i 600 volontari della legione inglese, e di passare con loro il Volturno.

Partiti all’alba del 25 ottobre dalla Scafa di Formicola, le camicie rosse arrivarono alle 9:30 al castello di Calvi, un’antica costruzione fiancheggiata da quattro torri; la chiesa e diverse case formavano l’intera città di Calvi Vecchia.

La 18° divisione si accampò tra i Martini e Visciano, la 15° divisione e la legione inglese occuparono il campo a Zuni.

Lo stato maggiore garibaldino stabilì il suo quartier generale alla locanda di Calvi, un fabbricato solitario adibito nei giorni precedenti ad ospedale napoletano.

La morte di due soldati britannici

Gli ufficiali diedero disposizioni di far sorvegliare la taverna (l’odierna Taverna Mele) da una compagnia della legione inglese, principalmente, per vedere una buona volta come si comportava realmente con il popolo.

Gli inglesi avevano già suscitato tanto clamore senza aver fatto qualcosa anche solo minimamente.

Nel pomeriggio, a seguito del sequestro della diligenza della Posta Reale, il conducente, sottoposto a perquisizione nella grande sala della taverna, tremava tutto per la paura e chiese il permesso di uscire per soddisfare un bisognino corporale.

Due soldati d’oltremanica lo scortarono fuori dalla locanda.

Prima ancora che fosse buio, giunse un ordine di Garibaldi di uscire nuovamente e continuare a marciare sulla Strada Regia di Venafro.

Le brigate dovevano levare il campo e iniziare a muoversi.

Gli ufficiali dello stato maggiore in sella ai loro cavalli erano già sull’attuale Casilina, quando improvvisamente nel cortile della taverna si udirono due detonazioni.

Si scoprì che due soldati britannici si erano feriti a morte per pura negligenza.

Era già buio.

La contessa Maria Martini si adoperò con eccessiva generosità pretendendo non si sa cosa dal brigadiere Rustow.

Quest’ultimo, nelle poche ore del pomeriggio aveva già visto tante cose dagli inglesi, che le rispose:
se i ragazzi fra loro si sono sparati a morte, è perché non abbiamo bisogno del loro operato“.

Intanto, sopraggiunse un chirurgo dell’esercito britannico salutato calorosamente dalla contessa.

Il medico si recò nel cortile e verosimilmente diede il colpo di grazia ai suoi connazionali.

La ripresa della marcia

I corpi degli inglesi furono sepolti dietro Taverna Mele.

Alcuni anni fa durante i lavori di ristrutturazione del fabbricato, Silvestro Salvi rinvenne ossa umane appartenute quasi sicuramente ai due.

Intanto, dopo aver radunato le truppe sparse su tutto il territorio caleno, un graduato ordinò al capitano della compagnia inglese a guardia della locanda di mettersi in marcia.

Con grande stupore dei presenti, l’uomo si rifiutò di obbedire, asserendo che il grande Peard gli aveva imposto di difendere la locanda di Calvi fino all’ultima goccia del suo sangue.

Il brigadiere prussiano aveva dato l’ordine a Peard di mettere una delle sue compagnie a guardia del fabbricato, ma niente di più.

Il Rustow rispose al capitano di rimanere lì fino a quando il diavolo fosse venuto a prenderlo, e s’incamminò con tutta l’armata.

I garibaldini sostarono la notte alla taverna di Caianello, tra due ruscelli in quel tempo poveri d’acqua.

Il 26 ottobre, il sole si era alzato mostrandosi all’orizzonte.

Non appena Garibaldi terminò le abluzioni in una vicina sorgente, l’intera colonna si mise in movimento sulla grande strada di Venafro che saliva e scendeva alternativamente.

Le truppe formavano una lunga spirale rossa ed era opinione comune che questa banda di filibustieri operasse il suo ultimo movimento.

L’arrivo a Calvi

Purtroppo, non si poteva dire lo stesso degli inglesi; ghiotti – un simile individuo mangiava di più rispetto a dieci italiani – ubriaconi, andavano in giro per la zona senza che i loro ufficiali potessero tenerli sotto controllo, rubavano i maiali e il pane, e, come emerso dalle denunce in arrivo più tardi su questa banda di predoni buoni a nulla, dal modo assurdo, bruciavano quello che non potevano mangiare e bere, vale a dire paglia, tavoli e sedie.

I volontari garibaldini, arrivati a Vairano Patenora, bivaccarono in località Fratte.

Subito dopo pranzo, terminato lo storico incontro alla taverna del Pagliarone tra Garibaldi e il re Vittorio Emanuele II, arrivò l’ordine dell’eroe dei due mondi di ritirarsi a Calvi.

La maggior parte delle truppe delle brigate Dezza e Spinazzi si stabilirono in prossimità della cattedrale romanica, proprio come gli inglesi, dove Garibaldi fissò il suo quartier generale; il grosso delle brigate Eber e De Giorgis si acquartierarono a Visciano e Zuni, un battaglione alla taverna di Calvi, dove alloggiò nuovamente lo stato maggiore, ed altri combattenti presidiavano i luoghi strategici del territorio caleno.

Il 27 ottobre spuntò freddo e piovoso.

Di buon mattino, il cappellano portò alla locanda un ottimo caffè, che era riuscito a procurarsi dal parroco di Visciano don Pietro Rossi; con lui arrivò una povera donna che si lamentava del furto di una propria capra da parte dei soldati.

Il misfatto fu accertato, ma senza individuarne i colpevoli.

Date le circostanze, il Rustow diede mandato all’intendente di liquidare la piccola somma che reclamava.

Il ritorno di Garibaldi da Capua

La sventurata, dopo aver ricevuto del denaro contante, non si stancò di ringraziare con un’espressione felice e quasi incredula.

Verso mezzogiorno, un aiutante di campo portò la notizia che Garibaldi stava tornando da Capua percorrendo la grande via.

Il brigadiere generale Wilhelm Rustow, il sottotenente Antonio Catenacci e una guida di cognome Farina, bersagliere milanese, lasciarono immediatamente “Taverna Mele” per andare incontro al dittatore.

Lungo la strada, il colonnello Giuseppe Dezza, comandante della 18° divisione, denunciò il comportamento patetico dei soldati di sua maestà che vagavano per il paese in piccoli distaccamenti armati, rubando alla gente di campagna e andando coraggiosamente alla ricerca del bestiame.

Avendo un po’ di tempo a disposizione, il brigadiere si recò al campo inglese; qui ordinò al Peard di far cessare le razzie e le usurpazioni perpetrate dai suoi uomini, e di riunire un consiglio di guerra al fine di valutare tutti i crimini commessi.

Il colonnello parlò delle leggi inglesi, dell’incapacità di mantenere la disciplina, dei timori di un probabile ammutinamento dei suoi uomini.

L’ufficiale, tralasciando gli ordini impartiti, ritornò sulla strada per Capua.

Ben presto incontrarono Garibaldi e il suo staff.

Non gli dissero nulla delle violenze commesse dagli inglesi evitando in tal modo di angosciarlo per delle sciocchezze.

Inoltre, non gli rivelarono il seguente episodio.

Lo scambio delle divise dei piemontesi per quelle dell’esercito napoletano

Un distaccamento di soldati britannici, vagando alla cieca per le campagne a caccia di maiali, senza comprendere una sola parola d’italiano e non sapendo dell’arrivo del re sabaudo e delle sue truppe nel regno di Napoli, scambiarono le divise dei piemontesi per quelle dell’esercito napoletano.

Iniziarono così un vivace fuoco di sbarramento.

Fortunatamente nessuno rimase colpito dalle pallottole e ben presto, chiarito l’equivoco, sua maestà poté proseguire il suo cammino alla volta delle alture di S. Angelo.

Non c’era dubbio che l’eroe dei due mondi sarebbe andato su tutte le furie se avesse appreso ciò che era accaduto.

Così Rustow preferì non aprir bocca sui fatti avvenuti in precedenza e tutti ritornarono tranquillamente a Calvi Vecchia nel quartier generale di Garibaldi.

Ma il dittatore apprese poco dopo tutta la verità.

Un contadino si recò nell’accampamento per lamentarsi del furto commesso da un soldato della legione britannica del proprio cavallo, che fu effettivamente trovato.

Un altro gli raccontò della sparatoria che aveva coinvolto il sovrano sabaudo.

Il capo di stato maggiore fu costretto a dire tutto quello che sapeva.

Garibaldi era furioso e schiumava dalla rabbia.

Nel frattempo, quattro mascalzoni appartenenti alla stessa “legione” caricavano pezzi di stoffa e arnesi domestici che avevano rubato.

Il dittatore chiamò Peard e gli fece passare un brutto quarto d’ora.

La concessione della grazia

Immediatamente fu convocato il consiglio di guerra.

Peard, temendo una insubordinazione dei suoi uomini, chiese aiuto.

Alcuni combattenti della brigata Dezza presero le armi, e il Rustow confessò più tardi che avrebbe sperato in un ammutinamento della legione inglese.

Li avrei massacrati sul posto, senza ulteriori indugi, e i nostri soldati erano nella migliore disposizione per fare questo piccolo servizio ai figli di Albione“.

Ma tutto si svolse con la dovuta calma.

Due mascalzoni furono condannati alla fucilazione.

Ancora una volta, il dittatore in persona concesse loro la grazia, anche se nell’interesse dell’esercito meridionale, secondo qualcuno avrebbero meritato dieci volte la morte.

Garibaldi era consapevole che l’Italia aveva grandi obblighi verso Inghilterra.

Tuttavia, egli confondeva la nazione d’oltremanica con una massa di mascalzoni, con un gruppo di ragazzi ubriachi, a cui era stato attribuito erroneamente il nome di “legione inglese“.

Sempre il 27 ottobre, il corrispondente del Times inviò in patria dal suo accampamento di Zuni un reportage sulle vicende di quella spedizione.

Fortunatamente, il giorno successivo le camicie rosse lasciarono il territorio caleno.

I britannici si rivelarono inutili e la loro missione in Italia costò ventimila sterline, di cui solo cinquemila raccolte in Inghilterra e il resto versate da Napoli.

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