La lettera di Cicerone redatta a Cales l’8 febbraio 49 a.C.

La lettera di Cicerone redatta a Cales l’8 febbraio 49 a.C.

Il legame indissolubile tra Marco Tullio Cicerone e la città di Cales traspare da varie testimonianze letterarie.

L’arpinate ebbe una predilezione particolare per Cales, ove soggiornò diverse volte e di cui si considerava l’autorevole patrono.

Nelle sue sortite in terra calena dimorò nella villa di Quinto Paconio Lepta, suo praefectus fabrum in Cilicia.

Cicerone strinse con il Lepta un forte rapporto di amicizia e ospitalità.

Lo scrittore, uno dei più grandi della storia, parlava dell’amicizia come uno dei sentimenti più importanti per l’uomo.

La vita non è vita senza amicizia, se, almeno in parte, si vuole vivere da uomini liberi“.

La preziosa relazione tra le persone crea una carica emotiva ed è basato sul rispetto, la fiducia, la sincerità e la reciproca disponibilità.

L’amicizia, legame talvolta fragile ma spesso indissolubile, ha ispirato e influenzato molti autori che sin dall’antichità hanno cercato di descrivere nelle proprie opere l’incommensurabile valore di questo sentimento.

L’uomo non può vivere senza creare dei legami, perché proprio come scrisse Cicerone nel trattato De Amicitia:

“la natura non ama affatto l’isolamento e cerca sempre di appoggiarsi ad un sostegno che è tanto più dolce quanto più caro è l’amico“.

Per quanto concerne i suoi spostamenti, le Epistole ad Attico ci permettono di conoscere meglio l’itinerario percorso.

Il 3/4 febbraio del 49 a.C., Cicerone da Formia si recò con il fratello in Campania.

Dopo aver attraversato il municipio di Cales, arrivò a Capua, dove era stato convocato per il 5 febbraio dai consoli.

Il 7 febbraio, l’arpinate riprese il viaggio di ritorno verso la sua terra e pernottò nuovamente a Cales.

Il contenuto della missiva

Dalla sua amata città scrisse un’altra epistola.

“Hai sentito parlare delle nostre disgrazie prima di me.

Infatti provengono da laggiù.

Da qui, poi, non vi è niente di buono da aspettarsi.

Sono venuto a Capua il 5 febbraio, così come avevano ordinato i consoli.

Lentulo arrivò tardi quel giorno.

L’altro console non si presentò affatto il sette.

Infatti quel giorno ho lasciato Capua e mi sono fermato a Cales.

Da lì, l’altro giorno prima dell’alba, ti ho scritto questa lettera.

Mentre ero a Capua, non ho saputo nulla dei consoli, nessun arruolamento.

Infatti i reclutatori non osano mostrare il volto quando lui è presente.

Al contrario, il nostro comandante è introvabile, non fa nulla e non fa nomi.

Infatti non manca la volontà ma la speranza.

E il nostro Gneo (oh, cosa miserevole e incredibile!) è completamente abbattuto.

Nessun coraggio, nessun progetto, nessuna forza, nessuna attenzione.

Non mi soffermerò su ciò: la fuga vergognosa dall’urbe, i vili discorsi nelle città, l’ignoranza non solo dell’avversario ma anche delle sue truppe.

Che ne pensi di questo?”

Il prosieguo dell’epistola

“Il 7 febbraio, arrivò a Capua il tribuno della plebe C. Cassio.

Il messaggero ordinò ai consoli di recarsi a Roma, prelevare il denaro dal deposito del tempio e ripartire immediatamente.

Lasciata la città, fare ritorno, con quale guardia?

Poi ne escano; chi lo permetterà?

Il console rispose chiedendo a Pompeo di recarsi prima nel Piceno.

Ma quello era completamente perduto; nessuno lo sapeva tranne me dalle lettere di Dolabella.

Non avevo dubbi che fosse ormai in Puglia, il nostro Gneo su una nave.

Ora che farò io?

Bella domanda.

Con disappunto, proprio niente, se tutte le cose fatte non fossero le più vergognose, e non essendo io partecipe di alcuna decisione.

Tuttavia farò ciò che mi si addice.

Lo stesso Cesare mi esorta alla pacificazione.

Ma la lettera è antecedente a quando ha iniziato ad agire sconsideratamente.

Dolabella e Celio mi dicono che egli è molto contento di me.

Mi tormenta un grande dubbio.

Soccorrimi con il tuo consiglio, se puoi; e quanto puoi, interessati di queste cose.

In tanto disordine di avvenimenti, non ho cosa scriverti.

Aspetto una tua lettera.”

Scr. Calibus vi Id. Febr. ante lucem a. 705 (49)

de malis nostris tu prius audis quam ego; istinc enim emanant. boni autem hinc quod exspectes nihil est. veni Capuam ad Non. Febr., ita ut iusserant consules. eo die Lentulus venit sero. alter consul omnino non venerat vii Id.; eo enim die ego Capua discessi et mansi Calibus. inde has litteras postridie ante lucem dedi. haec Capuae dum fui cognovi: nihil in consulibus, nullum usquam dilectum; nec enim conquisitores φαινοπροσωπεῖν audent, cum ille adsit, contraque noster dux nusquam sit, nihil agat, nec nomina dant; deficit enim non voluntas sed spes. Gnaeus autem noster (o rem miseram et incredibilem!) ut totus iacet! non animus est, non consilium, non copiae, non diligentia. mittam illa, fugam ab urbe turpissimam, timidissimas in oppidis contiones, ignorationem non solum adversari sed etiam suarum copiarum: hoc cuius modi est?

[2] vii Id. Febr. Capuam C. Cassius tribunus pl. venit, attulit mandata ad consules ut Romam venirent, pecuniam de sanctiore aerario auferrent, statim exirent. urbe relicta redeant; quo praesidio? deinde exeant; quis sinat? consul ei rescripsit ut prius ipse in Picenum. at illud totum erat amissum; sciebat nemo praeter me ex litteris Dolabellae. mihi dubium non erat quin ille iam iamque foret in Apulia, Gnaeus noster in navi.

[3] ego quid agam σκέμμα magnum—neque me hercule mihi quidem ullum, nisi omnia essent acta turpissime, neque ego ullius consili particeps—sed tamen quod me deceat. ipse me Caesar ad pacem hortatur; sed antiquiores litterae quam ruere coepit. Dolabella, Caelius me illi valde satis facere. mira me ἀπορία torquet. iuva me consilio si potes, et tamen ista quantum potes provide. nihil habeo tanta rerum perturbatione quod scribam. tuas litteras exspecto. (1)

Cicerone tornerà ancora una volta nella sua Cales.

Ma di questo se ne riparlerà in seguito.

Bibliografia:
1) Marco Tullio Cicerone, Ad Atticum, Libro VII, 21

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